Il 2 febbraio 1922, a Parigi, veniva alla luce “Ulisse” di James Joyce, un’opera che avrebbe rivoluzionato la letteratura del Novecento. Nel giorno del suo quarantesimo compleanno, Joyce regalava al mondo il frutto più significativo della sua genialità. Un secolo dopo, questo capolavoro modernista rimane un enigma affascinante, un libro che sfida il lettore con la sua complessità ma che è acclamato come uno dei più grandi romanzi in lingua inglese, influenzando profondamente la letteratura del suo tempo.
“Ulisse” non è solo un titolo; è un viaggio. Diviso in diciotto capitoli, il romanzo segue Leopold Bloom per le strade di Dublino in un’unica giornata, il 16 giugno 1904. Bloom, ebreo di origini ungheresi, vive il tradimento della moglie Molly, in una dinamica che ricalca l’epopea di Odisseo e Penelope. Ogni capitolo adotta una tecnica narrativa diversa, un caleidoscopio stilistico che imita le avventure dell’eroe omerico, creando un intricato parallelismo tra la vita moderna e l’antico poema epico.
Oltre a Bloom e Molly, troviamo Stephen Dedalus, alter ego di Joyce, già protagonista del “Ritratto dell’artista da giovane”. Dedalus, in cerca di un padre e afflitto dalla morte della madre, assume il ruolo di Telemaco, in un gioco di specchi che riflette e distorce i miti classici.
L’odissea editoriale di “Ulisse” è quasi epica quanto il suo contenuto. Cominciato nel 1914, durante la Prima guerra mondiale, il romanzo affrontò censure e accuse di oscenità. Dal 1918, pubblicato a puntate su “The Little Review”, fu presto messo al bando per i suoi contenuti audaci. La censura non risparmiò nemmeno l’Inghilterra, dove il romanzo fu stampato in Francia per evitare problemi legali, grazie alla caparbietà di Sylvia Beach e della sua Shakespeare and Company.
Le prime mille copie parigine furono seguite da altre tirature, ma il libro subì sequestri e roghi. Solo nel 1933 negli Stati Uniti e nel 1936 in Inghilterra “Ulisse” vide una pubblicazione libera da censure. In Irlanda, terra natale di Joyce, il romanzo restò praticamente sconosciuto fino agli anni Sessanta, più per disinteresse che per censura attiva.
La pubblicazione italiana, affidata a Mondadori nel 1960, fu una fatica erculea. Giulio De Angelis, insieme a studiosi del calibro di Glauco Cambon e Giorgio Melchiori, realizzò una traduzione monumentale. Altre versioni seguirono, arricchendo il panorama editoriale italiano con nuove interpretazioni di questo testo labirintico.
Il 16 giugno, divenuto noto come “Bloomsday”, celebra ogni anno l’avventura dublinese di Bloom, trasformando Dublino in un palcoscenico vivente, dove i lettori rivivono le pagine di Joyce con passione e dedizione. Ma “Ulisse” è molto più di una celebrazione annuale. T.S. Eliot ne lodò l’importanza epocale, e la critica riconosce in esso uno dei vertici del modernismo, una corrente che riscriveva le regole della narrativa con tecniche come il flusso di coscienza, i monologhi interiori e le frammentazioni temporali.
Non tutti, però, furono entusiasti. Virginia Woolf, ad esempio, criticò l’opera per la sua oscurità e pretenziosità, mentre D.H. Lawrence la trovò volgare. Anche la moglie di Joyce, Nora Barnacle, scherzò dicendo che avrebbe dovuto scrivere “libri sensati”.
Nonostante le difficoltà di lettura, “Ulisse” è stato continuamente reinterpretato, adattato e citato. La sua influenza si estende dal teatro al cinema, alla musica e perfino ai social media contemporanei come TikTok. Con traduzioni, adattamenti radiofonici e ispirazioni musicali, l’eredità di Joyce continua a vivere, dimostrando che l’avventura intellettuale iniziata il 2 febbraio 1922 non ha mai smesso di affascinare e sfidare i lettori di tutto il mondo.